“Non c’è nulla, nient’altro che energia”, conferenza di Yogi S.A.A. Ramaiah, novembre 1987, all’ashram in Quebec e storia di Yogiyar – di Marshall Govindan
Il 9 maggio 1923, nella antica villa di S.A. Annamalai Chettiar, una giovane donna, Thaivani Achi, diede alla luce il suo secondo figlio, Ramaiah, che significa “Ram che adora Shiva”. Due anni prima, S.A. Annamalai Chettiar aveva pilotato il primo aereo privato dall’Inghilterra all’India. Aveva un aeroporto privato vicino alla sua casa. La sua famiglia era la più ricca di tutta l’India meridionale, il patrimonio era stato accumulato dai suoi familiari esercitando le attività di banchieri e commercianti in tutto il sud-est asiatico nel corso di diverse centinaia di anni. La loro casa, “Ananda Vilas”. (“il luogo della beatitudine”) era la seconda più grande nella cittadina di palazzi di Kanadukathan [famosa per gli edifici con ingressi a forma di tempio, N.d.T.] in un’area conosciuta come “Chettinad”, 60 chilometri a nord di Madurai, l’antica capitale del Tamil Nadu. Chettinad era abitata principalmente dal clan Nattukottai Chettiar, composto da diverse centinaia di famiglie. I Chettiar furono i primi banchieri del Sud-Est asiatico e il loro impero commerciale comprendeva l’India meridionale, la Malesia, lo Sri Lanka, il Vietnam, la Birmania e l’Indonesia. Oltre alle attività commerciali, nel corso di centinaia di anni hanno anche finanziato la costruzione della maggior parte dei grandi templi dell’India meridionale, con le loro colossali torri gopuram. L’attuale ministro delle Finanze del governo indiano, P. Chidambaram, è il cugino di Yogi Ramaiah e ha costruito la sua carriera su una solida reputazione di onestà e acume in campo finanziario. S. Annamalai, il nonno di Ramaiah, era un grande filantropo e uomo d’affari; il fratello di suo padre, Raja Sir Annamalai Chettiar, aveva fatto fortuna importando teak dall’India all’India del Sud e la sua dimora padronale, grande centinaia di metri e situata accanto ad Ananda Vilas, comprendeva un garage per tredici auto. Era diventato un importante industriale. Ma il giovane padre di Ramaiah era più interessato agli aeroplani, alle auto sportive, ai cavalli da corsa, al gioco d’azzardo e a spendere i soldi del padre. La madre di Ramaiah era una giovane donna devota, anch’essa Chettiar, con un forte interesse per la spiritualità e il misticismo. Era una discepola di “Chela Swami”, un enigmatico “santo infantile” e sadhu, o santone, che di tanto in tanto si aggirava nella loro casa. Dato che era sempre completamente nudo, a volte i ragazzi del villaggio lo trattavano come se fosse pazzo, lanciandogli pietre. Ma nessuno riuscì mai a capire perché sorridesse sempre: i ragazzi del villaggio gli davano delle banane o gli massaggiavano i piedi in segno di riverenza, e lui sorrideva; poi alcuni di loro lo prendevano in giro o cercavano di stuzzicarlo, e lui rispondeva solo sorridendo. Nessuno sapeva dove vivesse o dove andasse quando scompariva per settimane o per mesi; andava e veniva come il vento. Ma Thaivani Achi gli era devota.
Il giovane Ramaiah fu educato da tutori e beneficiò della vita di un membro della cerchia più elitaria dell’India coloniale. Giocava a golf, indossava abiti inglesi e spesso si recava in auto a 300 chilometri a nord di Madras, dove suo padre possedeva la maggior parte delle proprietà sul mare per quasi un miglio a sud della cattedrale di San Thome. Ramaiah era interessato alla scienza e alla letteratura tamil. Mentre il padre sperperava al gioco la fortuna della famiglia, Ramaiah si preparò per un’istruzione universitaria. Suo padre voleva che si dedicasse agli affari, come tutti i buoni Chettiar, ma Ramaiah fu irremovibile. Quando nel 1940 fu ammesso all’Università di Madras, al Presidency College, l’istituzione più prestigiosa dell’India meridionale, si appellò al padre per ottenere il permesso di specializzarsi in geologia, con una specializzazione minore in studi tamil. Dopo un’accesa discussione e dopo l’intercessione della madre di Ramaiah, S.A. Annamalai cedette e diede il suo consenso.
Ramaiah fu eccellente negli studi e nel 1944 si laureò con il massimo dei voti. Fece domanda per gli studi post-laurea in geologia alla John Hopkins University di Baltimora, negli Stati Uniti, e fu accettato. Suo padre si oppose a questa proposta, insistendo affinché Ramaiah iniziasse una carriera nell’impero commerciale di famiglia. Alla fine Ramaiah riuscì a convincere il padre a permettergli di andare in America, ma a condizione che prima si sposasse. Promesso sposo da diversi anni a Solachi, una giovane donna la cui ricca famiglia viveva nel palazzo di fronte ad Ananda Vilas, il matrimonio fu celebrato e Ramaiah e la sua giovane sposa iniziarono a fare i preparativi per il lungo viaggio in mare verso l’America. Tuttavia, il destino si intromise e Ramaiah contrasse la tubercolosi ossea. I migliori medici inglesi furono chiamati a curarlo, ma poiché la tubercolosi ossea era ed è tuttora una malattia incurabile, il massimo che poterono fare fu arrestarne l’ulteriore diffusione oltre le gambe. Lo fecero imprigionandolo in un’ingessatura che si estendeva dai piedi al collo. Immobilizzando il suo corpo in questo modo, si pensava di arrestare l’ulteriore sviluppo della malattia. Rimase in questa situazione, appeso alle colonne del letto e sospeso in aria, per sei anni. La sua famiglia lo lasciò solo con la sua giovane sposa e alcuni domestici, nel loro cottage sul mare, al numero 2 di Arulananda Mudali Street, (ora Arulandam Street), a San Thome, Mylapore, Madras.
Mentre la maggior parte delle persone avrebbe probabilmente ceduto alla disperazione di fronte a una condizione così inimmaginabile, Ramaiah aveva una fonte di forza che gli permise di sopravvivere a questo periodo difficile. Sua madre gli aveva trasmesso un amore innato per la spiritualità e così, invece di vedere la sua situazione come una maledizione, si rese conto che poteva usarla per esplorare i regni interiori della sua anima. Essendo un avido lettore, Ramaiah studiò i classici della letteratura spirituale indiana. Fu particolarmente colpito dalle poesie di Ramalinga Swamigal e dagli scritti di Sri Aurobindo. La sua famiglia aveva servito Ramana Maharshi per tre generazioni ed egli poté apprezzare il suo metodo di Vichara Atman. Incapace di muoversi o di impegnarsi in qualsiasi attività normale, iniziò anche a praticare seriamente la meditazione e, ogni volta che era possibile, mandava il suo autista a invitare famosi sadhu o guru che si trovavano in visita nella zona. Incuriositi dalla sincerità di questo giovane con il corpo completamente ingessato, venivano a istruirlo nell’arte della meditazione e della respirazione. Non potendo esplorare il mondo esterno, rivolse la sua attenzione al mondo interiore. Senza altre distrazioni, fece rapidi progressi. Uno dei sadhu che ebbe maggiore influenza su di lui fu un uomo di mezza età chiamato “Prasanananda Guru”. Era un famoso “tapaswi”, un asceta che poteva rimanere immobile per molte settimane, immerso in meditazione o in trance. A volte veniva chiamato dai capi delle zone colpite dalla siccità per la sua capacità di far piovere. Nel 1948, pose fine a tre anni di siccità nel Chettinad, dopo essersi seduto per 48 giorni nel tempio di Brahmanoor Kali, a un chilometro dal villaggio, eseguendo tapas yogici, o meditazione intensiva. Alla fine di un “mandala” di 48 giorni, la pioggia arrivò a torrenti. Da allora non si è più avuto siccità in quella zona.
Un altro dei primi guru di Ramaiah fu Omkara Swami, un ex impiegato delle poste, che era diventato un famoso “tapaswi” e rimaneva seduto senza muoversi per 48 o 96 giorni senza interruzione, immerso in trance samadhi. Egli condivise con Ramaiah la sua intima conoscenza della sadhana yogica. Nel 1952, Ramaiah scrisse e pubblicò una biografia di Omkara Swami, intitolata “Un santo beato”. I due rimasero amici fino alla morte di quest’ultimo, avvenuta negli anni Sessanta.
Il 10 marzo 1952, giorno in cui Yogananda raggiunse la mahasamadhi negli Stati Uniti, Mauna Swami, un vivace sadhu e discepolo di Shirdi Sai Baba, si recò a casa di Ramaiah a San Thome e, dopo aver dato prova dei suoi poteri di chiaroveggenza, predisse con grande sicurezza che Ramaiah sarebbe presto guarito. Ma prima che ciò potesse accadere, Ramaiah cedette alla disperazione e una notte decise di porre fine alla sua vita trattenendo il respiro. Mentre lo faceva, sentì improvvisamente una voce che diceva: “Non toglierti la vita! Dalla a me!”. Stupito, fece un respiro profondo, chiedendosi chi potesse essere. Poi capì che doveva essere la misteriosa figura che aveva cominciato a vedere in meditazione dopo la visita di Mouna Swami. La prima volta che questo accadde, ebbe una visione di Shirdi Sai Baba, che indossava il suo caratteristico drappo arancione. Chiese con impazienza a Shirdi Sai Baba: “Sei tu il mio guru?”. La risposta fu: “No, ma ti rivelerò chi è il tuo guru”. Proprio allora vide per la prima volta il suo guru, “Babaji”.
Il mattino seguente, Ramaiah si svegliò con la consapevolezza di essere stato guarito. Fu chiamato il medico inglese e il gesso fu rimosso. Con grande stupore di tutti, l’esame del medico rivelò che la temuta malattia era scomparsa. Nei giorni seguenti Ramaiah riacquistò l’uso delle gambe. Cominciò anche a cantare dolcemente il nome “Babaji” e poi “Om Babaji” e “Om Kriya Babaji” e infine il mantra a cinque sillabe “panchakra” “Om Kriya Babaji Nama Aum”, con assoluta gratitudine e gioia.
Un giorno, poco tempo dopo, trovò in un giornale la pubblicità di un nuovo libro in merito alla famosa santa “Satuguru Rama Devi”, intitolato “9 Boag Road”, che era l’indirizzo della sua residenza a Madras. L’autore era V.T. Neelakantan, un noto giornalista. Ramaiah scrisse una cartolina a quest’ultimo, richiedendo una copia del libro e rivolgendosi a lui con “Caro Atman”. Dopo averla ricevuta, il giornalista pensò che il mittente della cartolina dovesse essere una “borsa di denaro”, cioè una persona ricca e inattiva, ma per curiosità decise di fargli visita a San Thome.
Iniziò così un’amicizia e una collaborazione che durò quasi quindici anni. V.T. Neelakantan aveva ricevuto frequenti visite notturne da parte della stessa misteriosa figura, Babaji, nella sua stanza della puja a Egmore, Madras. Babaji rivelò presto a Neelakantan che avrebbe lavorato a stretto contatto con Ramaiah per fondare una società di yoga a suo nome, “Kriya Babaji Sangah”, e per scrivere e pubblicare i suoi insegnamenti in una serie di libri. Nei due anni successivi, durante le visite notturne a casa di V.T. Neelakantan, Babaji dettò diversi libri a V.T. N., “mio figlio”, come lo chiamava Babaji: “La voce di Babaji e il miticismo rivelato”, “Il passepartout per tutti i mali” e “La morte della morte”. V.T.N., all’epoca 52enne, era stato corrispondente estero per diversi anni prima e durante la seconda guerra mondiale, sia in Giappone che a Londra, per uno dei principali giornali indiani, l’Indian Express. Per questo motivo, era diventato anche un confidente di Pandit Nehru, presidente del Partito del Congresso e successivamente primo ministro dell’India quando questa divenne indipendente dalla Gran Bretagna nel 1947. Prima della guerra, per più di quindici anni aveva anche lavorato fianco a fianco con Annie Besant. Succeduta a Madame Blavatsky, fu a lungo presidente della Società Teosofica e lo istruì all’occulto. Era anche sposato e padre di quattro figli e una figlia. Alla fine degli anni ’40 lasciò la famiglia per due anni e si recò sull’Himalaya come rinunciante, dove studiò con Swami Sivananda e altri santi.
Il 10 ottobre 1952 fu fondata ufficialmente la “Kriya Babaji Sangah” e, con frequenza periodica, nella casa di San Thome di Ramaiah vennero organizzate conferenze, lezioni di meditazione e altre attività pubbliche. Ramaiah era il presidente e V.T. N. era l'”Acharya”. Furono acquistate attrezzature per la stampa e fu pubblicata una rivista di Kriya Yoga più volte all’anno. Nonostante la salute cagionevole di V.T.N., vennero anche scritti altri libri. Ramaiah scrisse le introduzioni e V.T.N. annotò i dettati di Babaji. Babaji iniziò a dirigere la sadhana di V.T.N., Ramaiah e Solachi, con istruzioni specifiche riguardanti soprattutto la meditazione e i mantra.
Babaji iniziò ad apparire anche a Ramaiah e nel 1954 lo convocò a Badrinath, sull’Himalaya. Babaji gli chiese di uscire dal villaggio del tempio, situato a 3.500 metri di altezza, senza prendere nulla e indossando solo un perizoma. Ramaiah, all’epoca 31enne, si incamminò verso nord, risalendo la valle attraverso la quale il fiume Alakanantha, una delle principali sorgenti del Gange, sgorgava dal suo ghiacciaio.
Un giorno si imbatté in due sadhu, seduti su una roccia piatta. Uno gli sorrise, l’altro si accigliò e iniziò a lanciargli insulti verbali. “Come può un indiano del sud dalla pelle scura osare vagare qui, vestito solo con un perizoma?”, lo schernì. Ramaiah salì un po’ più in alto, lasciandosi dietro le spalle i richiami dei sadhu, si sedette su una roccia e iniziò a meditare. Passarono diverse ore. Improvvisamente sentì qualcuno che si avvicinava e lo esortava a scendere al villaggio per mangiare. Ramaiah comunicò che non lo avrebbe fatto e chiese di essere lasciato in pace. Passarono altre ore; era ormai buio, quando all’improvviso tornò lo stesso sadhu che gli aveva sorriso e cominciò a spingergli del cibo in bocca. “Jai Babaji” pensò. “Anche qui, in questo luogo freddo, desolato e senza alberi, Babaji provvede a nutrirmi”.
Dopo tre giorni di vagabondaggio, Babaji si rivelò fisicamente a Ramaiah e iniziò a istruirlo alla sacra scienza del Kriya Yoga. Nei mesi successivi, nella sua grotta accanto al lago glaciale noto come Santopanth Tal, a trenta chilometri a nord di Badrinath, Ramaiah imparò un sistema completo di 144 Kriya, o tecniche, che comprendevano respirazione, posture yoga, meditazione e mantra. Poté anche beneficiare della compagnia dei principali discepoli di Babaji: Annai Nagalakshimi Deviyar, nota anche come Mataji, e Dadaji, conosciuto come Swami Pranavanandar nella sua precedente incarnazione, oltre ad altri stretti discepoli del grande Satguru. Tra le altre cose, Babaji gli insegnò anche a resistere al freddo con un esercizio di respirazione.
Nel 1955, dopo diversi mesi sull’Himalaya, al suo ritorno a Madras Ramaiah si impegnò in un “tapas” molto rigoroso o periodo di pratica intensiva, durante il quale adorò la Madre Divina sotto forma di Kali, nella sua forma più temibile.
Il culto di Kali è considerato particolarmente efficace per purificarsi dai desideri e superare limitazioni quali paura e rabbia, Kali incarna il “distacco” dagli attaccamenti dell’ego, rappresentati dalle teste che mozza. Se Patanjali, nei suoi Yoga Sutra, raccomanda seccamente il vairagya o distacco come metodo principale del Raja Yoga classico, tale pratica assume una forma personale quando ci si impegna seriamente in tapas ascetici. Rimanendo seduti e immobili in una stanza per molti giorni, la natura umana si ribella e il completo abbandono al Divino, sotto forma di Madre Natura, Kali, gli sembrò essere l’unico modo a rendergli possibile superare la resistenza dell’ego. Tap significa “riscaldare” e tapas significa “raddrizzare con il fuoco” o “sfida volontaria con se stessi”. È il nome originario dello “Yoga”. Inizia con l’espressione di un voto, per esempio non lasciare un luogo, non mangiare, non parlare, ecc. per un periodo stabilito, ad esempio un “mandala” di 48 giorni. I 40 giorni di Gesù Cristo nel deserto furono una forma di tapas. Dopo aver completato il tapas, Ramaiah rinacque; aveva sperimentato profondi stati di quiete, noti come samadhi, e da allora in poi sarebbe stato conosciuto come “Yogi Ramaiah”. Babaji gli affidò anche alcuni importanti incarichi: iniziare lo studio della fisioterapia e della terapia dello yoga per aiutare coloro che, come lui, erano portatori di handicap; iniziare a insegnare il Kriya Yoga sia in India che all’estero; iniziare a ricercare e raggruppare gli scritti dei guru di Babaji, Boganathar e Agastyar.
Yogi Ramaiah, insieme a Solachi, si trasferì a Bombay dove si iscrisse al programma per diventare fisioterapista presso il G.S. Medical College and Hospital, il più grande della città. Studiò e applicò con successo anche le yogasana per il trattamento dei suoi pazienti. Nel 1961, verso la fine dei suoi studi, chiese ai suoi professori il permesso di condurre esperimenti clinici. Disse loro che, con il solo utilizzo dello yoga, riteneva di poter curare oltre 20 diversi tipi di disturbi funzionali tra cui diabete, ipertensione, appendicite e infertilità, il tutto nel giro di tre mesi. Il permesso gli fu accordato e i pazienti furono selezionati dai medici curanti. Per tre mesi lavorò con questi pazienti ogni giorno, guidandoli e incoraggiandoli nella pratica dello yoga e dei regimi dietetici e dei trattamenti solari ad esso collegati. Dopo tre mesi, con grande stupore dei medici, tutti i pazienti risultarono essere guariti. Come riconoscimento, gli fu conferito un diploma ad honorem. Preferendo non aspettare oltre per completare i requisiti accademici, tornò a Madras: a San Thome fondò una clinica gratuita per i poveri specializzata in portatori di handicap, e ad Adyar un dipartimento di riabilitazione ortopedica. Fu impegnato nella gestione della clinica gratuita per quasi dieci anni. Il reparto di riabilitazione ortopedica continua a operare ancora oggi a Mount Road, appena a nord del ponte di Adyar. Nel 1985, chi scrive visitò con Yogi Ramaiah il G.S. Medical College e fece una dimostrazione delle 18 yoganasanas mentre Yogi Ramaiah teneva una lezione a oltre 500 professionisti nell’auditorium. Il personale più anziano ricordava ancora l’efficace utilizzo dello yoga fatto da Yogi Ramaiah.
A partire dal 1956 Yogi Ramaiah e Solachi iniziarono a viaggiare in Sri Lanka, Malesia e Vietnam, per tenere conferenze, lezioni di yogasana e iniziazioni al Kriya Yoga, oltre a guidare campi medici gratuiti per i disabili. Un devoto, un ingegnere che viveva al numero 51 di Arasady Road a Jaffna, in Sri Lanka, raccontò a chi scrive, nel 1980, di aver visto Yogi Ramaiah molte volte in sogno prima del loro primo incontro. Nel 1958, lo Sri Lanka fu scosso dalle prime rivolte comunitarie tra tamil e singalesi.
Questi eventi si sono verificati mentre Yogi Ramaiah stava conducendo il suo terzo annuale “Parlamento delle religioni mondiali e dello yoga”, una conferenza ecumenica a cui partecipavano i leader locali di vari gruppi religiosi. Tra i partecipanti, in rappresentanza della Divine Life Society fondata da Swami Sivananda, c’era Swami Satchidananda, un Tamil di Coimbatore che rimase profondamente colpito da Yogi Ramaiah e dai suoi sforzi per l’ecumenismo. Iniziò così un’amicizia che durò tutta la vita. Quando nel 1967 Swami Satchidananda partì per l’America, si fermò nell’ashram sul mare di Yogi Ramaiah a San Thome per ricevere la sua benedizione. Yogi Ramaiah lo accompagnò all’aeroporto e gli diede un saluto regale. Dopo che anche Yogi Ramaiah si trasferì a New York City, nel 1968, i due parteciparono spesso alle cerimonie l’uno dell’altro. Ad esempio, la cerimonia di laurea per gli studenti del corso di lingua tamil tenuto nell’ashram di Yogi Ramaiah al 112 East 7th Street, N.Y.C. e il Parlamento delle religioni mondiali e dello yoga alla Rutgers University nel 1969. In Sri Lanka, nel 1958 il Primo Ministro si recò all’ultimo giorno del Parlamento per ringraziare personalmente Yogi Ramaiah e gli altri oratori per aver contribuito a sedare le rivolte con i discorsi che promuovevano la comprensione interreligiosa.
In Malesia, all’inizio degli anni ’60, Yogi Ramaiah e Solachi trovarono molte persone interessate al Kriya Yoga. Solachi aveva ricevuto in dote dalla sua famiglia una grande piantagione di gomma. Il bisnonno di Yogi Ramaiah fu miracolosamente salvato alla fine del XIX secolo da un misterioso yogi, successivamente identificato come Babaji. Il suocero di Yogi Ramaiah, il dottor Alagappa Chettiar, aveva fondato un college a Pallatur, a 8 chilometri da Kanadukathan, dove Yogi Ramaiah insegnava yoga. Amava molto Yogi Ramaiah. Ma dopo la sua morte, le famiglie della giovane coppia cominciarono a condannare il loro stile di vita itinerante, il loro interesse per lo yoga e la mancanza di figli. Era inaudito che dei giovani si impegnassero così seriamente nello Yoga, a meno che non rinunciassero a tutto come i sannyasin. Per paura di questo, si accesero litigi e Solachi si ammalò gravemente. Durante la convalescenza, tornò a vivere nella casa della madre a Kanadukathan. I rapporti tra suocera e genero si deteriorarono e negli ultimi giorni di vita, nel 1962, l’avida madre ingannò la figlia Solachi per farsi cedere tutte le sue proprietà, rubò i suoi gioielli e impedì a Yogi Ramaiah di vedere la moglie. Dopo la morte di quest’ultima, la suocera di Yogi Ramaiah aggravò la tragedia corrompendo un giudice in Malesia affinché le attribuisse la proprietà di tutti i beni della figlia nel Paese.
In quel periodo, Yogi Ramaiah decise di rompere con la propria famiglia. Sua madre era morta e suo padre era un materialista e si opponeva attivamente alle attività di Yogi Ramaiah che riguardavano lo yoga. Vennero fatti commenti denigratori e alla fine Yogi Ramaiah decise che doveva staccarsi dalla sua famiglia una volta per tutte. Invece di aspettare la sua quota di proprietà familiare, normalmente attribuita dopo il decesso dei genitori, negoziò un accordo che gli permise di ottenere denaro a sufficienza per acquistare una grande casa a Kanadukathan, al 13 di AR Street. Per diversi anni era stata utilizzata come pensionato per gli studenti universitari locali. Negli anni ’70 Yogi Ramaiah la ristrutturò e costruì tra le sue mura diversi edifici sacri: un santuario dedicato a Babaji, un santuario dedicato alla signora Siddha Avvai, contenente più di mille manoscritti in foglie di palma scritti dagli Yoga Siddha, che nel corso di molti anni aveva acquisito da collezionisti privati e musei mentre viaggiava in tutto il Tamil Nadu; e santuari dedicati a Mataji e Dadaji. Sopra il cancello d’ingresso fu costruita una bellissima torre gopuram con le immagini dei 18 Yoga Siddha. Tuttavia, nonostante la sua pratica dello yoga Yogi Ramaiah rimase ferito dalla sua famiglia e, come vedremo in seguito, fece notevoli sforzi per riabilitare la sua reputazione con la famiglia.In quel periodo, Yogi Ramaiah decise di rompere con la propria famiglia. Sua madre era morta e suo padre era un materialista e si opponeva attivamente alle attività di Yogi Ramaiah che riguardavano lo yoga. Vennero fatti commenti denigratori e alla fine Yogi Ramaiah decise che doveva staccarsi dalla sua famiglia una volta per tutte. Invece di aspettare la sua quota di proprietà familiare, normalmente attribuita dopo il decesso dei genitori, negoziò un accordo che gli permise di ottenere denaro a sufficienza per acquistare una grande casa a Kanadukathan, al 13 di AR Street. Per diversi anni era stata utilizzata come pensionato per gli studenti universitari locali. Negli anni ’70 Yogi Ramaiah la ristrutturò e costruì tra le sue mura diversi edifici sacri: un santuario dedicato a Babaji, un santuario dedicato alla signora Siddha Avvai, contenente più di mille manoscritti in foglie di palma scritti dagli Yoga Siddha, che nel corso di molti anni aveva acquisito da collezionisti privati e musei mentre viaggiava in tutto il Tamil Nadu; e santuari dedicati a Mataji e Dadaji. Sopra il cancello d’ingresso fu costruita una bellissima torre gopuram con le immagini dei 18 Yoga Siddha. Tuttavia, nonostante la sua pratica dello yoga Yogi Ramaiah rimase ferito dalla sua famiglia e, come vedremo in seguito, fece notevoli sforzi per riabilitare la sua reputazione con la famiglia.
Nel 1968 Yogi Ramaiah scrisse e pubblicò un libro sulle 18 posture dello Yoga, riccamente corredato di fotografie, e un libro intitolato “Songs of the 18 Siddhas” (Canzoni dei 18 Siddha), con selezioni dai manoscritti su foglie di palma che aveva raccolto. Secondo quanto riportato nel libro, Babaji gli aveva dato l’incarico di provvedere alla pubblicazione delle loro opere. Il suo caro amico, il poeta tamil e rinomato yogi discepolo di Sri Aurobindo, Yogi Shuddhananda Bharatiyar, scrisse una bellissima introduzione a quest’opera. Negli anni successivi, Yogi Ramaiah fece trascrivere gli scritti di Boganathar da manoscritti su foglie di palma e, a partire dal 1979, li pubblicò in Tamil, sotto forma di libro moderno in diversi volumi. Nel corso degli anni aveva anche continuato a pubblicare una rivista di Kriya Yoga, con l’assistenza di V.T. Neelakantan. Tuttavia, la loro lunga collaborazione si concluse intorno al 1967, quando i due ebbero un dissidio personale. Le ragioni del litigio sono sconosciute a chi scrive, poiché Yogi Ramaiah evitò di fare qualsiasi commento su V.T.N., anche quando chi scrive glielo chiese esplicitamente nel 1972. (Nel 2003, tuttavia, chi scrive ha ottenuto informazioni dai figli di V.T.N. sui suoi ultimi anni di vita. V.T.N. continuò a essere devoto a Babaji e a praticare regolarmente soprattutto la mantra sadhana fino alla sua morte, avvenuta nel 1983 a Madras; la moglie di V.T.N. morì nel 1992. Visse una vita tranquilla e ritirata fino alla fine; non ci fu alcuna riconciliazione con Yogi Ramaiah).
Nel 1967 Yogi Ramaiah si recò in Malesia e poi in Australia, dove tenne iniziazioni di Kriya Yoga. Uno studente, Filinea Andlinger, possedeva una proprietà a diverse ore di macchina da Sydney, all’interno della quale si trovava una grande grotta. Babaji fece tapas intensivo in questa grotta, secondo quando Babaji stesso riferì a Yogi Ramaiah.
All’inizio del 1968 Yogi Ramaiah si trasferì negli Stati Uniti. Quando arrivò a New York City si aspettava di poter lavorare come fisioterapista, ma le sue credenziali accademiche non vennero riconosciute. Decise quindi di acquisire al più presto le qualifiche professionali americane, iscrivendosi a corsi di protesi e ortottica. Nel frattempo, però, visse in condizioni spartane in un edificio abbandonato sulla East 5th Street, a Lower Manhattan, e lavorò part-time in una libreria. Iniziò a tenere conferenze e lezioni sullo yoga, che attirarono i giovani del posto. Era l'”estate dell’amore” a New York e nell’Haight Ashbury di San Francisco. I giovani cercavano nuovi modi per “sballarsi” e gli psichedelici e lo yoga stavano penetrando nella coscienza della nuova generazione.
Egli incoraggiò i suoi nuovi giovani studenti barbuti ad abbandonare le droghe, a praticare lo Yoga e a trovare un lavoro. Intorno a lui si formò una piccola comunità di seguaci e vennero affittati diversi appartamenti per ospitare loro e le attività del suo neonato “American Babaji Yoga Sangam”.
Il suo primo presidente, Dolph Schiffren, riuscì a ottenere una “green card” di residenza permanente per Yogi Ramaiah, in quanto fondatore-ministro di questa nuova organizzazione no-profit. Acquistarono anche la loro prima proprietà in America, un terreno di 30 acri parzialmente boscoso, a Richville, N.Y., a un’asta, a scatola chiusa, per 3.000 dollari. Sebbene fosse a sette ore di macchina da New York, sarebbe servita loro durante i ritiri estivi. Tra i primi seguaci c’erano Dolph Schiffren, sua moglie Barbara, Mary Chiarmante e il suo compagno Richard, oltre a Lloyd e Teri Ruza. In seguito, si unirono al gruppo Leslie Stella, Andrea Auden, Ronald e Anne Stevenson, Donna Alu, Michael Bruce, Michael Weiss, Cher Manne e chi scrive, nonché David Mann, fratello del famoso produttore di Hollywood Michael Mann, e Mark Denner.
Prima di trasferirsi in California nell’estate del 1970, Yogi Ramaiah portò Dolph e Barbara con sé a Madras, dove avrebbero tenuto lezioni e promosso lo sviluppo del centro. Nel settembre del 1970 Yogi Ramaiah si trasferì a Downey, in California, dove visse con chi scrive e altri quattro studenti in un piccolo appartamento su Longworth Boulevard. Successivamente si trasferì in una piccola casa con gli stessi studenti in Chester Street a Norwalk, e si iscrisse agli studi di Protesi e Ortesi (“P & O”) presso il vicino Cerritos College, e iniziò a portare a casa gambe artificiali e tutori su cui lavorare. Iniziò anche a tenere conferenze e lezioni di yoga.
Charles Berner lo invitò, insieme ad altri noti yogi, tra cui Yogi Bhajan, Swami Satchidananda e Swami Vishnudevanda, a un incontro per discutere l’organizzazione della prima “kumba mehla” in Nord America. Aveva ipotizzato che sei jumbo jet portassero un paio di migliaia di sadhu indiani in un campo di contadini nell’Oregon. Chi scrive partecipò a diverse riunioni per organizzare la logistica, ma la proposta cedette sotto il peso della sua grandiosità. Tuttavia, Yogi Bhajan invitò Yogi Ramaiah a casa sua, appena fuori Sunset Boulevard, a Hollywood, per un incontro privato. Chi scrive lo accompagnò. Fu un’occasione memorabile vedere Yogi Bhajan, il maestro sikh, alto più di un metro e ottanta e pesante almeno 110 chili, con il suo abbigliamento regale, il turbante bianco, seduto accanto al dimesso Yogi Ramaiah che, vestito come il suo idolo, il Mahatma Gandhi, indossava un dhoti [pareo] di khadi [tessuto indiano] di fabbricazione domestica drappeggiato dalla vita e un telo sulle spalle. L’unica somiglianza tra i due consisteva nelle grandi barbe e negli occhi luminosi. Per quasi mezz’ora non scambiarono una parola. Rimasero seduti in silenzio, mentre chi scrive si chiedeva cosa stesse succedendo. Poi si scambiarono alcuni convenevoli e ce ne andammo. Un paio di settimane dopo, durante un incontro pubblico di devoti sikh, Yogi Bhajan disse alla folla di aver incontrato un grande santo, Yogi Ramaiah. Chi scrive si rese conto che la comunicazione tra i due era intercorsa al più profondo livello possibile. In un’occasione, quando chiesi a Yogi Ramaiah se era disponibile per avere un consulto in merito alla Kundalini, egli mi raccomandò Yogi Bhajan. Iniziò così un’amicizia di lunga durata. Nel dicembre del 1970, Yogi Bhajan fu uno dei principali oratori del “Parlamento delle religioni mondiali e dello yoga”, tenutosi all’UCLA. Chi scrive ebbe il piacere di invitare la maggior parte degli oratori che parteciparono. Quando ci trasferimmo nel nostro nuovo ashram, Yogi Bhajan partecipò alla cerimonia di inaugurazione. Commentando quanti capelli grigi c’erano già nella barba di Yogi Ramaiah, ricordo che si lamentò parlando di come fosse appena tornato da Amritsar, nel Punjab, dove aveva portato il suo primo gruppo di discepoli sikh americani, in quanto questi ultimi gli avevano fatto venire molti capelli grigi. Come discepoli, “siete pietre da macina al nostro collo”, ci disse, e ci esortò a rimanere fedeli al nostro percorso.
Nel corso della sua vita, Yogiyar (Yogi Ramaiah) si sentì spesso tradito, sia dai membri della famiglia che dai suoi studenti. Aveva una natura inflessibile e modi autoritari e controllanti. Sapeva tutto e non apprezzava che qualcuno mettesse in discussione la sua saggezza o il suo modo di fare. Sembrava orgoglioso di poter “schiacciare l’ego” dei suoi studenti, come se questo fosse il mezzo più efficace per la liberazione. Noi apprezzavamo la sua capacità di rivelare il nostro “lato ombra”. A differenza di alcuni guru, che trattano i loro studenti solo nel modo più rispettoso e amorevole, Yogiyar, come lo chiamavamo affettuosamente, evitava la confusione che quell’approccio comportava. Non ci amava come persone, con tutti i nostri problemi, ma amava chi siamo veramente. Sgretolando gli attaccamenti personali e le idiosincrasie esterne, ci aiutava a realizzare il nostro più profondo, vero Sé. Come studenti, abbiamo accettato questo approccio, che comportava molti rimproveri dolorosi, lunghe sessioni di karma yoga che comportavano lavori manuali o attività di routine per diverse ore di fila. Raramente riconosceva i nostri talenti, almeno non personalmente, e non delegava altro che i più banali dei compiti. Dal punto di vista organizzativo, sembrava quasi sempre fare l’opposto di ciò che sarebbe stato più efficace, evitando ogni forma di riconoscimento e che i suoi discepoli diventassero numericamente più di un piccolo gruppo di studenti dediti alla pratica del Kriya Yoga e al lavoro, che includeva il lavoro su noi stessi. Durante i suoi ritiri, per esempio, invece di raccogliere una somma fissa all’inizio del ritiro stesso, durante la prima o la seconda notte, mentre gli studenti dormivano, mandava diversi studenti a chiedere di contribuire con 5 dollari al “fondo per il cane”, o 20 dollari per il “fondo per l’edificio”, o 15 dollari per il “fondo per l’auto”. Così, ogni volta che si doveva prendere il portafoglio, si riceveva un’altra lezione di “distacco”. Tuttavia, chi non si rendeva conto che il gioco consisteva nel “catturare l’ego”, poteva facilmente sentirsi ferito e abbandonare entro breve tempo. Chi rimaneva, lo faceva sviluppando un buon senso dell’umorismo.
Yogiyar dava importanza anche all’istruzione e incoraggiava tutti i suoi studenti a tornare a scuola e a cercare di ottenere maggiori qualifiche.
Molti dei suoi studenti avevano abbandonato gli studi, ma lui li motivava ad apportare un contributo alla società, soprattutto nel campo della salute. Molti di loro sono diventati ortottici o protesisti qualificati: Edmund Ayyappa è stato per molti anni Direttore della Ricerca in Ortottica presso la Veterans Administration di Long Beach, California, e ha sviluppato molti arti artificiali innovativi controllati elettronicamente; Ronald Stevenson e John Adamski hanno fondato le loro cliniche di P&O rispettivamente in Virginia e a Chicago; altri sono diventati infermieri. Poiché chi scrive aveva già ottenuto alcune qualifiche presso la School of Foreign Service, Yogi Ramaiah gli chiese di recarsi a Washington D.C. nel 1973, dopo un anno in India, e di sostenere gli esami per il servizio civile; in seguito gli consigliò di accettare un posto di economista civile al Pentagono, dove lavorò per quattro anni. Yogiyar stesso conseguì il diploma in Ortottica e Protesi e lavorò per diversi anni come tecnico di laboratorio P&O, realizzando e applicando arti artificiali e tutori. In tale veste, nel 1973 iniziò anche a visitare i campi dei lavoratori migranti nella Imperial Valley, con un laboratorio di P&O portatile in una piccola roulotte. Dal momento che il clima caldo del deserto assomigliava a quello della sua terra natale in India, acquistò un terreno di 10 acri nella Imperial Valley, con una vecchia casa colonica, e iniziò a trascorrervi gran parte del suo tempo. Ottenne un posto di istruttore presso il locale Imperial Valley College, in un periodo in cui lo yoga era relativamente sconosciuto. Conduceva le lezioni indossando il suo dhoti indiano e un camice bianco da laboratorio e insegnava agli studenti del college come migliorare salute e benessere attraverso la respirazione e le posture yoghiche. Dopo circa otto anni, tuttavia, l’opposizione dei cristiani fondamentalisti del college, unita ai suoi frequenti spostamenti, pose fine al suo incarico, ma ottenne un posto a un’ora e mezza di distanza, all’Arizona State College di Yuma, in Arizona. Chi scrive firmò i documenti per l’acquisto di una piccola fattoria su cinque acri di terreno, alla periferia sud della città. Durante questo periodo, iniziammo a prendere in giro il biglietto da visita di Yogiyar che, a mano a mano che la sua esperienza didattica si accresceva, riportava sempre più qualifiche e posizioni accademiche. In seguito conseguì per corrispondenza un dottorato alla Pacific Western University e si fece fotografare in uno studio in “tocco e toga”. Sebbene spesso sembrasse incapace di avviare una conversazione formale con i conoscenti e non sembrasse preoccuparsi del fatto che il suo aspetto fosse totalmente insolito per chi non lo conosceva, il suo biglietto da visita sembrava essere uno strumento importante per dire a coloro che incontrava per la prima volta che, dopo tutto, lui non era poi una persona così strana.
Durante i tre decenni trascorsi negli Stati Uniti, di cui divenne cittadino nel 1975, Yogiyar tenne migliaia di conferenze e dimostrazioni relative alla Yoga Therapy, negli ospedali e nel corso di congressi medici. Alcuni lo consideravano un “tafano” o “coscienza sociale”, a causa dei suoi sforzi per elevare il livello di tali congressi. Alle conferenze P&O, in particolare, faceva uno sforzo coordinato per elevare la mentalità e la professionalità dei partecipanti. Ancora negli anni ’70 il laboratorio medio di P&O esponeva alle pareti calendari “femminili” e i congressi erano per lo più dedicati all’alcol. Yogiyar ha quindi ispirato molte delle sue studentesse, tra cui Suzanne Fournier, a diventare protesiste e ortesiste professioniste. Sottolineava con i medici professionisti di tutti i livelli che l’elemento più importante nel trattamento dei pazienti era “amare la persona”, non i farmaci o la tecnologia. Lui stesso trattava i casi peggiori, persone prive di braccia o gambe, o gravemente deformi, con tanto amore, come se fossero il Maestro stesso, con grande attenzione e avendo fiducia di poter fare qualcosa per loro.
Amava gli animali e gestiva un serraglio di cani, gatti, capre e mucche nei centri di Yuma e Imperial Valley. Anche nel centro di Richville, nello Stato di New York, insistette perché ci occupassimo per molti anni di un enorme toro Charolais bianco. Nonostante per noi fosse un peso accudirlo, ritenevamo importante trattarlo con riverenza, soprattutto perché i nostri vicini lo vedevano solo come una fonte di cibo. Le “vacche sacre” come in India erano più di un ricordo per noi. Erano un elemento del suo desiderio di portare la cultura indiana in Occidente. Il nostro abbigliamento, le nostre abitudini alimentari, il modo in cui dormivamo per terra, andavamo in bagno, ci lavavamo e persino il fatto che avessimo pochi mobili e che non avessimo la televisione, facevano parte di un esperimento sociale, se non di una mini-invasione sociale in una cultura materialista. Non voleva diventare come i suoi vicini e, se eri un suo studente e volevi vivere in uno dei centri da lui fondati, dovevi conformarti alle sue scelte culturali. C’era anche una ragione molto pratica per questo stile di vita: quando fummo mandati a vivere, praticare e lavorare in India, eravamo già abituati e fummo in grado di vivere lì per anni senza difficoltà. Questo, naturalmente, in un’epoca in cui l’India aveva ben poche delle moderne comodità occidentali e, di conseguenza, in genere era molto difficile per gli occidentali viverci. Egli concentrò la sua attenzione sulla formazione di alcune persone che potessero fondersi con le sue energie, fare la sadhana e aiutarlo a portare a termine gli incarichi ricevuti da Babaji.
Diceva anche che stava “piantando i semi” per raccogliere i cui frutti potevano essere necessarie centinaia di anni. Nei decenni successivi questi “semi” sarebbero germogliati nella coscienza collettiva e nella cultura della società occidentale. Quando chi scrive gli chiese come sarebbe stata l’America verso la metà del ventunesimo secolo, egli rispose che si sarebbe “elevata al livello spirituale dell’India”. Spesso le sue azioni non erano motivate da risultati di breve periodo, ma dagli effetti che, nel corso del tempo, potevano produrre in tutto il pianeta. Anche se a volte le sue motivazioni potevano sembrare enigmatiche, in realtà si fondavano sugli antichi principi della cultura yoghica.
A differenza della maggior parte degli insegnanti, Yogiyar finanziava le sue attività in modo non commerciale. Per quasi tre decenni, ad esempio, i seminari di iniziazione, che duravano diversi giorni, comportavano una donazione di soli 16 dollari. Tutte le spese ordinarie e straordinarie, tuttavia, erano pagate da una o due dozzine di studenti che vivevano nella mezza dozzina di centri che aveva fondato in Nord America. Rendeva molto difficile a chiunque diventare un residente, ma una volta che avesse dimostrata la capacità di vivere una vita disciplinata e consacrata, esigeva molto da coloro che diventavano residenti. Con i loro modesti stipendi, facendo spesso due lavori per far quadrare i conti, dovevano pagare le somme necessarie per sostenere i suoi lunghi viaggi, l’automobile, le bollette del telefono e delle utenze, e la stampa di libri per progetti straordinari. Invece di chiedere al pubblico o ai nuovi studenti di pagare per i suoi corsi, in pratica erano i residenti dei suoi centri a finanziare la sua missione e il pubblico. Si trattava di karma yoga, servizio disinteressato, e insegnava ai residenti la benedizione del dare con il cuore e il distacco dai beni materiali. Si rifiutava anche di fare quello che lui chiamava creare un “posto di scambio”, che offrisse libri, immagini e attrezzature agli studenti.
Il focus dei suoi centri residenziali era fornire un ambiente in cui i residenti potessero praticare il Kriya Yoga otto ore al giorno, dopo aver svolto un’attività lavorativa remunerata per otto ore al giorno, e prendersi cura dei propri bisogni fisici e praticare il karma yoga per le restanti otto ore al giorno.
Questo programma permetteva ai residenti di diventare estremamente dinamici e di concentrarsi sulla pratica yoghica senza distrazioni. Il pubblico poteva visitare i centri solo una volta alla settimana per partecipare a lezioni pubbliche gratuite di asana yoga. Questa era l’antitesi del fenomeno degli studi di yoga che gradualmente divenne la norma altrove. Egli voleva che i suoi studenti integrassero la pratica dello yoga nella loro vita quotidiana, senza commercializzarla o farne un mezzo per guadagnarsi da vivere.
Uno dei mezzi che Yogi Ramaiah dichiarava di utilizzare per “aiutare” i suoi studenti era ciò che lui chiamava “schiacciamento dell’ego”. Era maestro nell’orchestrare situazioni che permettessero agli studenti di trovarsi faccia a faccia con le reazioni dei loro ego: rabbia, risentimento, gelosia, dubbio, insicurezza, orgoglio e praticamente qualsiasi altra limitazione umana concepibile. Per esempio, obbligò due residenti a vivere insieme in uno dei suoi centri. Uno di loro aveva un Q.I. di 85 e l’altro un Q.I. di 150. Mise a capo del centro quello stupido, ma poi, quando le cose andavano male, dava la colpa a quello intelligente. Inoltre evitava di lodare i suoi studenti. A volte lo si sentiva dire: “Perché non riesci a essere bravo come lui o lei?”, ma era sempre per l’effetto che aveva su chi veniva rimproverato. Ad esempio, incoraggiava coloro che non avevano fiducia in se stessi a riprendere gli studi formali all’università e sgonfiava le pretese di coloro che erano troppo sicuri di sé o orgogliosi. Poteva essere spietato nel trafiggere l’ego.
Questo approccio, anche se molto discutibile, richiede l’assoluta integrità dell’insegnante. Se è egoistico, allora è abusivo.
In ultima analisi è purificatorio, ma occorre impegnarsi nel processo di “lasciar andare” tutto ciò che si manifesta come reazione. In definitiva, questo porta alla liberazione dai samskara, o tendenze abituali, e alla realizzazione del Sé. Ma è interessante notare che questo metodo non è menzionato in alcuno dei testi dello Yoga Siddha, come gli Yoga Sutra di Patanjali o il Tirumandiram. Rientra nella tradizione tantrica di onorare il guru, come mezzo per realizzare il guru interiore. Se però si traduce nella sottomissione di un ego alla volontà di un altro ego, diventa un mero abuso di potere. Questo metodo rivela il suo reale valore quando rientra nel “gioco della coscienza” in cui la relazione serve a realizzare il Sé, l’Osservatore, in opposizione al Visto e a tutto ciò che ha forma.
Il “guru” è un principio della natura che conduce dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della coscienza; può manifestarsi attraverso eventi, situazioni e persone, ma quando si manifesta costantemente attraverso un individuo, possiamo dire che questa persona è un “guru”. Non bisogna però commettere l’errore di confondere la persona con il “principio guru”.
La persona è un veicolo, e a volte il veicolo ha dei difetti. Lo studente non deve cedere il suo potere a nessuno, ma deve onorare il “principio guru” che opera attraverso chiunque o qualunque cosa gli apporti saggezza. È anche per questo che Yogiyar diceva spesso “non sono un guru”, ma al tempo stesso accettava di essere onorato come tale.
Nonostante le sue eccentricità, Yogiyar era una persona spledida e gli volevamo molto bene. Passava ore al telefono ad ascoltare alcuni dei suoi studenti che, dall’altra parte del Paese, gli esponevano i loro problemi. Dormiva regolarmente solo tre ore a notte, rifiutandosi anche di cenare fino a quando “il lavoro del Maestro era finito”, il che di solito avveniva intorno alle 3 del mattino. Ogni due settimane ci alternavamo a rotazione per fargli da assistente personale: arrivavamo pieni di energia e pronti per sessioni non-stop di karma yoga, e alla fine eravamo esausti. Il suo livello di energia era a dir poco incredibile. A volte, quando la pressione del lavoro, della sadhana, del karma yoga e della frantumazione dell’ego diventava eccessiva, qualcuno se ne andava. Forse solo perché cercavano una via più facile. Il nostro numero si riduceva e Yogiyar, come lo chiamavamo affettuosamente, rendeva ancora più difficile per i nuovi arrivati unirsi alla dozzina di centri che aveva fondato negli Stati Uniti. Con il diminuire del nostro numero, aumentava il peso del mantenimento dei centri per gli studenti rimasti.
Era una persona straordinaria. Una volta, durante un pellegrinaggio attraverso il Paese, ci fermammo per la notte sul Pike’s Peak, in Colorado. Yogiyar annunciò che sarebbe andato nella foresta a meditare da solo e che nessuno avrebbe dovuto seguirlo. Preso dalla curiosità, chi scrive lo seguì e, rimanendo nascosto dietro un albero, lo vide sedersi in posizione di meditazione, incrociare le braccia, alzare gli occhi e scomparire in una sfera di luce simile al sole! Chi scrive si pizzicò più volte e si stropicciò gli occhi per assicurarsi di non stare sognando. Dopo mezz’ora, la sfera di luce svanì lentamente per riprendere la forma familiare di Yogiyar. Si alzò e, mentre iniziava a camminare per tornare al nostro campo, scorse chi scrive e lo rimproverò per avergli disobbedito.
Quando in seguito chi scrive gli chiese cosa stesse facendo, Yogiyar gli disse che stava “piantando semi” in vari luoghi, che sperava sarebbero diventati importanti centri di vita spirituale in futuro.
Yogiyar manifestò i suoi “siddhi” o poteri yogici miracolosi in molte occasioni. Questo avveniva nel corso delle nostre interazioni con lui. Aveva la capacità di sapere esattamente cosa stavamo pensando, di renderci visita durante i nostri sogni e di dirci cosa avevamo fatto in privato nei giorni precedenti, quando eravamo in congedo per conto nostro. Ma non faceva mai sfoggio dei suoi poteri. E, nella maggior parte dei casi, non ci permetteva di restare con lui per più di qualche settimana. Ci mandava in varie parti del Paese o all’estero, per esercitarci e lavorare, e perché diventassimo più forti. In questo modo, chi scrive ha svolto diversi lavori e ha avviato o sviluppato diversi centri in paesi lontani come Inghilterra, Australia, Malesia, India e Sri Lanka, e in diverse città degli Stati Uniti e del Canada.
Il suo più grande “siddhi”, tuttavia, era forse la sua notevole devozione e il suo amore per Babaji. Era palpabile e, quando teneva una conferenza, era come se fosse il grande Maestro in persona a parlare attraverso Yogiyar. Cantava con sincera devozione “Om Kriya Babaji Nama Aum” per tutto il giorno. Spesso faceva riferimento a Babaji o menzionava di sfuggita come Babaji gli avesse rivelato determinate cose. Babaji era il centro della sua vita ed egli faceva di Babaji il centro della nostra vita. Lavorava instancabilmente per servire Babaji in tutti coloro che si rivolgevano a lui. Che si trattasse di corsi, di consulenze individuali, di attività di gruppo, di conferenze o dell’organizzazione di centri e ashram dove praticare il Kriya Yoga indisturbati, il suo cuore e la sua mente erano concentrati sul servizio. Attraverso il suo esempio, abbiamo anche imparato come Babaji gli aveva trasmesso i suoi insegnamenti. Spesso ci diceva che Babaji non lo “imboccava” con le lezioni personali che aveva bisogno di ricevere, ma gli diceva di “scoprirle” da solo, quando si trovava confrontato a determinate domande. In questo modo abbiamo compreso che anche Yogiyar aveva i suoi limiti, ma dal momento che studiava con Babaji da molto tempo, per molti versi era un esempio da seguire.
Un buon senso dell’umorismo era di grande aiuto per accettare i suoi modi o i suoi ammonimenti. Anche se non riuscivamo a capire perché ci trattasse in un certo modo, sapevamo che ci voleva bene. A volte non riusciva a fingere di essere severo, e gli scappava un sorriso nel bel mezzo di un’ammonizione; e noi sapevamo che lo faceva per uno scopo. Le sue scene drammatiche hanno lasciato il segno in noi. Quando dava istruzioni personali al telefono, di solito ripeteva più volte la stessa cosa, per imprimere nel nostro subconscio la lezione che voleva trasmettere.
Dal 1954 al 2005, ogni anno, sotto la guida e l’ispirazione di Babaj, Yogi Ramaiah organizzò il Parlamento delle religioni mondiali e dello yoga, di solito alternando una nuova sede in India e una in Occidente. In queste conferenze di due o tre giorni, aperte al pubblico e gratuite, quindici o venti oratori di diverse confessioni condividevano a turno i loro credo e le loro pratiche e trasmettevano al pubblico insegnamenti relativi al loro percorso religioso o spirituale. Si trattava di fondamentalisti cristiani, monaci buddisti, rabbini ebrei, indiani d’America, yogi e swami, sacerdoti cattolici e persino insegnanti spirituali new age. Il tema dibattuto era “l’unità nella diversità” e fungeva da potente antidoto alla più comune delle malattie spirituali: il fanatismo religioso. È un risultato notevole aver portato avanti questo servizio così a lungo e così bene.
Yogi Ramaiah mostrava anche una forte caratteristica della sua ascendenza Chettiar: il bisogno di costruire santuari. Oltre a quello già citato di Kanadukathan, all’inizio degli anni ’60 costruì anche un piccolo santuario a Babaji nell’ashram di San Thome; nel 1968 un piccolo santuario yantra sulla Bear Mountain, nello Stato di New York; nel 1970 un santuario yantra sotterraneo sul Monte Shasta; nel 1972 un santuario di Ayyappa Swami nella Imperial Valley, in California; nel 1974 un santuario relativamente grande, in granito, sul luogo di nascita di Babaji a Porto Novo, nel Tamil Nadu; nel 1975 un grande santuario di Muruga a Richville, nello stato di New York; nel 1977 un altro santuario di Babaji a Washington, D. C.; e nel 1983 un santuario del Santo Padre. C. e un santuario alla Madre Divina Kali a Long Island, N.Y. Successivamente si trasferì a Grahamsville, N.Y. nelle Catskills. Ancora, nel 1987 costruì un grande e bellissimo santuario a Palaniandavar (Muruga) in cima a una collina nel campus del suo college ad Athanoor, nel Tamil Nadu. Nel 1983 costruì il suo santuario più importante in assoluto, nel suo ashram di Yuma, in Arizona. Ospitava le murthis o statue di granito dei 18 Yoga Siddhas che aveva recuperato nel corso di oltre una decina di anni da Mahabalipuram, a sud di Madras. Si trattava del suo progetto di costruzione più ambizioso fino a quel momento. Sapendo perfettamente che si sarebbe trovato su una faglia sismica importante, lo fece costruire su fondamenta di pali di cemento, affondate in profondità nella terra, usando un cemento della durezza di una diga. Durante la costruzione rimase praticamente senza dormire per quasi quaranta giorni, talmente era preoccupato che il santuario non presentasse alcun difetto. Quando fu completato, fu organizzata una grande celebrazione e i giornali di tutta l’Arizona pubblicarono lunghi reportage e molte fotografie del tempio dall’aspetto esotico. Un paio di settimane più tardi ebbe un grave attacco di cuore. Alla fine aveva dovuto fare i conti con la fatica del lavoro compiuto. Fu sottoposto a un intervento di quintuplo bypass al Sinai Hospital di West Los Angeles. In seguito il chirurgo ci disse che le sue arterie non erano ostruite, ma che erano estremamente delicate.
Durante la convalescenza, Yogiyar iniziò ad apportare alcuni cambiamenti non solo nel suo stile di vita, ma anche nella sua organizzazione. Annunciò la formazione di un Consiglio di Amministrazione che, alla sua morte, avrebbe assunto la responsabilità dell’amministrazione dei vari centri e ashram; inoltre, una notte prese da parte chi scrive e, sotto un lampione, gli dettò un elenco di condizioni da soddisfare per assumersi la responsabilità di iniziare altre persone ai 144 Kriya. Non aveva mai chiesto a nessun altro, né prima né dopo, di adempiere a questa responsabilità. Chi scrive impiegò tre anni per soddisfare queste condizioni, che comportavano faticose sadhana e altre discipline. Quando Yogiyar confemò il loro adempimento, chiese a chi scrive di limitarsi ad “aspettare”.
Nel 1980 e nel 1981, Yogiyar inviò chi scrive in India e poi in Sri Lanka. Dopo aver completato alcuni incarichi relativi alla pubblicazione degli scritti di Boganathar, lo incoraggiò a vivere tranquillamente in un ritiro isolato, sulla spiaggia di Dehiwala, a sud di Colombo. Non c’era molto da fare, così chi scrive fece voto di dedicare tutto il suo tempo a un’intensa sadhana in silenzio. I primi tre mesi furono difficili, perché la mente non riusciva a distrarsi nella lettura o nel lavoro, ma poi la notte e il giorno divennero un tutt’uno e una pace ineffabile cominciò a permeare la sua coscienza. Dopo undici mesi arrivò Yogi Ramaiah. Chi scrive non voleva smettere il suo tapas. Yogiyar insistette che doveva tornare in America, dove c’era molto lavoro da fare. Per chi scrive fu una gradita sorpresa scoprire di riuscire a raggiungere sempre con facilità la condizione di pace che aveva raggiunto durante il ritiro a Dehiwala e sarà sempre grato per questa cosa. Ma prima di partire dedicò a Babaji un piccolo santuario che era stato costruito a Katirgama, nel luogo in cui Babaji raggiunse il nirvikalpa samadhi, sotto la tutela di Boganathar, e dedicò un nuovo ashram sul mare al 59 di Peters Lane, a Dehiwala, costruito con l’assistenza di Murugesu Candaswamy e dell’ex presidente della Corte Suprema, il dottor H.W. Tambiah, presidente onorario del nostro Lanka Babaji Yoga Sangam.
Nel 1985, chi scrive accompagnò Yogiyar in una visita di due settimane alle strutture mediche della Repubblica Popolare Cinese. Il nostro aspetto risultava strano per i cinesi, che all’epoca erano quasi tutti ancora vestiti con i loro scialbi abiti “maoisti”. I nostri ospiti erano talmente impreparati ad accogliere vegetariani che mangiammo solo riso e broccoli fibrosi tre volte al giorno! In seguito, quello stesso anno Yogiyar fu invitato presso l’All India Institute of Medical Sciences per tenere una conferenza sullo yoga insieme a molti altri illustri oratori in occasione di una conferenza di un giorno sulla meditazione. Sulla tribuna degli oratori era affiancato da Sua Santità il Dalai Lama, dal maestro spirituale Sri Ravi Shankar, un famoso monaco Jain, e dall’allora Ministro degli Interni e futuro Primo Ministro, Niramsinha Rao. Il Dalai Lama parlava con esitazione, dopo ogni frase faceva una pausa e chiedeva al suo assistente, un traduttore, se quello che aveva detto in inglese era corretto. La scena era molto suggestiva. Dopo aver parlato solo per 15 dei 45 minuti a lui assegnati, il giovane Sri Ravi Shankar, che all’epoca era praticamente sconosciuto al pubblico, annunciò che avrebbe rispettosamente ceduto il tempo rimanente a Yogi Ramaiah. Yogiyar parlò a lungo ed eloquentemente dello Yoga Siddhantham e di Babaji, e della necessità di integrare la nostra vita spirituale, attraverso la meditazione, in tutti gli ambiti della nostra vita. Naramsinha Rao impressionò molto chi scrive quando disse: “Il motivo per cui medito ogni giorno è che mi permette di accettare sempre più responsabilità”. Alla fine del 1985, chi scrive organizzò un viaggio di 48 giorni tra febbraio e aprile 1986, durante il quale 30 studenti americani accompagnarono Yogiyar al Maha Kumba Mehla di Hardwar. Eravamo alloggiati nel bungalow turistico vicino al Gange e ogni giorno beneficiavamo della compagnia di migliaia di sadhu e devoti che partecipavano a questo straordinario evento; Il numero di partecipanti raggiunse numeri da record e fece di questo il più grande Kumba Mehla degli ultimi 60 anni. In seguito, ci recammo tutti a Badrinath, dove avemmo la gioia di praticare la sadhana nei luoghi sacri associati a Babaji.
Nel 1986, Yogi Ramaiah vendette i nostri centri di New York e New Orleans e con il ricavato della vendita acquistò 145 acri di terreno a cinque chilometri dal villaggio di Kanadukathan con l’aiuto di due studenti, Meenakshisundaran degli Stati Uniti e Murugesu Candaswamy dello Sri Lanka. Dopo la cerimonia di posa della prima pietra per ciascuno dei nove edifici che sperava di costruire lì, come parte di un ospedale e di un college per la riabilitazione attraverso lo yoga, lasciò a chi scrive il compito di gestire la costruzione, assicurandosi che il lavoro svolto dagli appaltatori fosse conforme alle nostre esigenze. Era un compito arduo. Durante le precedenti visite in India, il razionamento dei materiali e la burocrazia avevano sempre reso molto problematici progetti di costruzione quali la ricostruzione dell’ashram di San Thome o dell’ashram di Kanadukathan. Si trattava di un terreno desertico, lontano da qualsiasi insediamento umano, e la fonte più vicina si trovava a oltre un chilometro. Furono ingaggiate cinquanta donne per trasportare l’acqua in secchi sulla testa, in modo da poter impastare la malta di cemento. Con grande stupore di chi scrive, in nove mesi furono costruiti nove edifici. Il Ministro dell’Industria dello Stato del Tamil Nadu venne a inaugurare il complesso. Qualche mese dopo, quando chi scrive tornò in Canada fece richiesta all’Agenzia canadese per lo sviluppo internazionale di una sovvenzione per sostenere il nuovo centro di riabilitazione in India. Il governo canadese inviò al complesso in India un funzionario addetto agli aiuti che stese un rapporto nel quale evidenziò che, nonostante le strutture fossero belle e ben attrezzate, anche in termini di ambulanze, non ci fosse alcuna amministrazione. Purtroppo, la nostra richiesta di sovvenzione fu rifiutata. Chi scrive iniziò a chiedersi se la riluttanza di Yogiyar a delegare e il suo bisogno di controllare tutto stessero tornando a essere il suo più grande ostacolo. Anche prima della costruzione del complesso, lui e altri avevano pregato Yogiyar di non costruirlo in un luogo così fuori mano. Ritenevamo che sarebbe servito ai suoi scopi solo vicino a un’area più popolata. Yogiyar fu irremovibile sulla necessità di costruirlo solo nei pressi di Kanadukathan, e precisò che era perché aveva bisogno di dimostrare qualcosa alla sua famiglia. Il modello di karma familiare non si era ancora esaurito, ma qualche anno dopo Yogiyar fu riaccolto nella sua famiglia. Lo invitarono alle loro funzioni e gli fu permesso di occupare una delle stanze di Ananda Vilas, quella in cui era nato.
Alcuni si chiederanno perché Babaji abbia concesso tanta grazia ai suoi discepoli più stretti, V.T. Neelakantan e Yogi Ramaiah, e poi abbia permesso che il loro rapporto andasse in frantumi dopo quindici anni, e che quest’ultimo continuasse a fare come ha fatto. Ignorano il fatto che anche Babaji permette a chi gli è vicino di imparare le proprie lezioni e di superare le proprie tendenze karmiche. I discepoli di Babaji non sono robot, cui i samskara vengono cancellati e l’illuminazione viene impiantata dal loro Satguru. Le autobiografie romantiche e le biografie edulcorate scritte dai devoti di solito evitano di menzionare la componente umana, se non anche i fallimenti, dei loro adorati soggetti: questi resoconti fanno più danni che altro. Trasmettono l’idea falsa e romantica che il sentiero spirituale sia pieno di miracoli, che il guru ci darà l’illuminazione e che la natura umana non resista con veemenza ai nostri sforzi per diventare divini. Per questo motivo, nello scrivere questo testo l’autore ha cercato di evitare di imbellire la verità delle cose e di raccontare l’umanità, l’enigmaticità e la problematicità nella biografia di Yogi Ramaiah, evitando di giudicarne le motivazioni. Negli ultimi anni, alcuni lo hanno criticato e messo in dubbio, ma lo hanno fatto senza nemmeno conoscere la persona, la sua vita e le sue difficoltà. Spero che questo resoconto li induca a fermarsi e a riflettere più profondamente sulla propria natura umana, prima di “lanciare pietre” contro gli altri. Che la sua vita e il suo esempio, nella sua interezza, possano servire da lezione per tutti noi.
Copyright January 2005 M. Govindan. All rights reserved.
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